Pintura y poesía

Pintura y poesía

martes, 18 de julio de 2017

Giacomo Leopardi. XXXIV. La ginestra o Il fiore del deserto (La retama o La flor del desierto).

Retama en Conero (2008)
Giancarlo Cazzaniga (Italia, 1930 - 2013)
Óleo sobre tela
Italia

Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον
τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre
che la luce.
Giovanni, III, 19.


     Qui su l’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante
e d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell’impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s’annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fûr liete ville e cólti,
e biondeggiâr di spiche, e risonâro
di muggito d’armenti;
fûr giardini e palagi,
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fûr cittá famose,
che coi torrenti suoi l’altèro monte
dall’ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
ove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrá dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
«Le magnifiche sorti e progressive».

     Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e vòlti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch’a ludibrio talora
t’abbian fra sé. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto;
bench’io sappia che obblio
preme chi troppo all’etá propria increbbe.
Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertá vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltá, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Cosí ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci die’. Per queste il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe’ palese; e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

     Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell’alma generoso ed alto,
non chiama sé né stima
ricco d’òr né gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma sé di forza e di tesor mendíco
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
non credo io giá, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice: — A goder son fatto, —
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nòve
felicitá, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest’orbe, promettendo in terra
a popoli che un’onda
di mar commosso, un fiato
d’aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sí, ch'avanza
a gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
ch’a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor piú gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dá la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccom’è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell’uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede cosí, qual fôra in campo
cinto d’oste contraria, in sul piú vivo
incalzar degli assalti,
gl’inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
Cosí fatti pensieri
quando fien, come fûr, palesi al volgo;
e quell’orror che primo
contra l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper; l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probitá del volgo
cosí star suole in piede
quale star può quel c’ha in error la sede.

     Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa,
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch’a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo, ove l’uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor piú senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o cosí paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiú, di cui fa segno
il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto; e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente; e che, i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente etá, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietá prevale.

     Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
cui lá nel tardo autunno
maturitá senz’altra forza atterra,
d’un popol di formiche i dolci alberghi
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l’opre,
e le ricchezze ch’adunate a prova
con lungo affaticar l’assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; cosí d’alto piombando,
dall’utero tonante
scagliata al ciel profondo,
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli,
o pel montano fianco
furiosa tra l’erba
di liquefatti massi
e di metalli e d’infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar lá su l’estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e cittá nove
sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
dell’uom piú stima o cura
ch’alla formica: e se piú rara in quello
che nell’altra è la strage,
non avvien ciò d’altronde
fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

     Ben mille ed ottocento
anni varcâr poi che sparîro, oppressi
dall’ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta piú mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
dell’ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando piú volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall’inesausto grembo
sull’arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l’acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontan l’usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente,
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
dopo l’antica obblivion, l’estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietá rende all’aperto;
e dal deserto fòro
diritto infra le file
de’ mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per vòti palagi atra s’aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l’ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Cosí, dell’uomo ignara e dell’etadi
ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sí lungo cammino
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
l’uom d’eternitá s’arroga il vanto.

     E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
giá noto, stenderá l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver’ le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma piú saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.


Di Canti, 1831.



Y los hombres
prefirieron las tinieblas a la luz
San Juan, III, 19



Sobre el árido lomo
del formidable monte
asolador Vesubio,
al cual ninguna flor ni árbol alegra,
tu mata solitaria en torno esparces,
olorosa retama,
contenta del desierto. Yo te he visto
hermosear con tus tallos las comarcas
que la ciudad rodean,
la cual señora fue de los mortales
y del perdido imperio
que parece, con taciturno aspecto,
recuerdo y fe prestar al pasajero.
En este suelo vuelvo a verte, amante
de parajes del mundo abandonados
y de adversas fortunas compañera.
Estos campos, cubiertos
de estériles cenizas, anegados
bajo la pétrea lava
que cruje bajo el pie del peregrino;
en donde al sol anida y se retuerce
la serpiente, y por donde
a su oculto cubil vuelve el conejo,
fueron villas y granjas
donde la espiga se doró y sonaron
mugidos de rebaños;
palacios y jardines
del ocio del potente
gratos refugios, y ciudades célebres
que con sus habitantes el altivo
monte, arrojando de su ígnea boca
ríos de lava, asoló. Hoy todo en torno
lo envuelve la ruina
donde tú, gentil flor, brotas, y casi
compadecida del ajeno daño
al cielo das dulcísimo perfume
que al desierto consuela. A estos lugares
venga aquel que exaltar con ditirambos
suele la humana condición, y vea
cuánto de nuestro género
cuida amante Natura. Y la pujanza
en su justa medida
aquí podrá estimar de los humanos
a los que sin piedad, en un instante,
la cruel nodriza, inesperadamente,
con leve movimiento
anula en parte, y puede si lo quiere
aniquilar del todo.
Aquí se ven pintadas
de la humana familia
las magníficas suertes progresivas.

Mírate ante el espejo,
necio y soberbio siglo,
que el camino hasta ahora
al alto pensamiento señalado
abandonas, volviendo atrás los pasos;
te jactas del retorno
y progresar lo llamas.
Tus niñerías los ingenios todos
de que la adversa suerte te hizo padre
van alabando, mientras
entre sí te escarnecen
con frecuencia. Yo, en cambio,
con tal baldón no bajaré al sepulcro;
mas antes el desprecio que se encierra
en este pecho mío
mostraré cuanto pueda al descubierto,
aunque sé que el olvido
oprime al que a su propia edad increpa.
De este mal, que me iguala
a ti mismo, me río yo hasta ahora.
Sueñas en libertad, y siervo a un tiempo
al pensamiento quieres,
por el cual resurgimos
de la barbarie en parte, y por quién sólo
se aumenta la cultura, único guía
de públicos destinos.
La verdad te disgusta
del mezquino lugar y áspera suerte
que Natura nos dio. Por eso vuelves,
cobarde, las espaldas a la lumbre
de la verdad, y, fugitivo, llamas
vil a aquel que la sigue,
y magnánimo sólo
a quien de sí se burla, o de los otros,
astuto o loco, y hasta el sol la eleva.
El hombre pobre y de organismo débil
aunque de alma elevada y generosa,
no se cree ni se llama
arrogante ni rico,
ni de espléndida vida o de bravura
jamás entre la gente
hace risible alarde;
mas de riqueza y de vigor mendigo,
muéstrase sin rubor, y lo declara
hablando abiertamente, y a sus cosas
las estima en lo justo.
Yo no creo magnánimo
espíritu, sino al contrario, necio,
al que nació para morir y dice:
"Hecho estoy para el goce",
y con hediondo orgullo
llena el papel, destino excelso y nueva
felicidad -que el mismo cielo ignora,
no ya sólo este mundo-, prometiendo
a pueblos que una ola
de airado mar, o un soplo
de aura maligna, o subterránea furia,
destruye de tal modo
que apenas el recuerdo de ellos queda.
Naturaleza noble
la del que a alzar se atreve
ojos mortales, contra
el destino común, y con franqueza,
sin rebajar lo cierto,
confiesa el mal que nos fue dado en suerte,
y el débil, bajo estado;
la que fuerte y altiva
se muestra en el sufrir, y ni ira ni odio
fraternos, aun más grandes
que todo mal, añade
a sus miserias, inculpando al hombre
de su dolor, sino que sólo acusa
a la culpable, que es de los mortales
madre en el parto, en el amor madrastra.
A ésta llama enemiga, y contra ella
creyendo coaligada
como lo están sin duda, y de concierto
la sociedad humana,
los hombres todos cree confederados
entre sí, y los abraza
con amor verdadero,
les ofrece valiosa y pronta ayuda
en los peligros y en las aflicciones
de la guerra común. Y, para ofensa
del hombre, armar la diestra y tender trampas
y estorbos al vecino
tan torpe le parece cual lo fuera,
en un campo cercado de enemigos,
en el más rudo asalto,
olvidando al contrario, acre disputa
iniciar con los suyos,
fulminando y sembrando así la huida
en sus propios guerreros.
Cuando tales ideas,
como antes, sean notorias para el vulgo,
y aquel horror que antaño
contra Natura impía
ató a los hombres con social cadena
en parte se renueve
por el veraz saber, el puro y recto }
conversar ciudadano,
la piedad y la justicia otras raíces
tendrán, que no las fábulas soberbias
donde se funda la honradez del vulgo,
como estar acostumbra
en pie el que en el error tiene su asiento.

Cuántas veces en estas
desoladas orillas
que el pardo manto de la lava cubren
me siento por la noche, y sobre el llano,
en el azul purísimo,
contemplo el fulgurar de las estrellas
a las que el mar distante
de espejo sirve, y centellea todo
en el éter sereno, en torno al mundo.
Cuando la vista fijo en esas luces
que un punto nos parecen
y que son tan inmensas
que la tierra y el mar son a su lado
un punto, y a las cuales
no ya el hombre, sino este
globo en que el hombre es nada,
ignorado es del todo; y cuando miro
las infinitamente más remotas
muchedumbres de estrellas
que niebla nos parecen, y a las cuales
no el hombre, no la tierra, sino todo,
el número infinito de las moles,
y el áureo sol, nuestras estrellas todas,
desconocen, y les parecen, como
ellas al mundo, un punto
de nebulosa luz; así, a mi mente
¿ tú que pareces, raza
humana? Y recordando
tu condición terrena, de que muestra
da este suelo que piso, y de otra parte
que tú fin y señora
te creíste del Todo, y cuántas veces
fantasear quisiste, en este oscuro
grano de arena que llamamos Tierra,
pensando que del orbe los autores
afablemente a conversar bajaron
con tu especie mortal, y que irrisorios
ensueños renovando, insulta al sabio
hasta la edad presente, que en cultura
y en cívica costumbre
parece a todas superar, ¿ qué impulso,
mortal prole infeliz, qué sentimiento
me asalta el corazón para contigo?
No sé si risa o piedad me inspiras.

Como al caer del árbol leve poma
que en el tardío otoño
su propio peso y madurez abaten,
de un hormiguero los albergues cálidos
cavados en la blanda
tierra, con gran trabajo,
y las obras y toda la riqueza
que con harta fatiga el pueblo activo
celosamente atesoró en verano,
aplasta, rompe y cubre,
desplomándose así desde lo alto,
del útero tonante
que lanza al hondo cielo
de cenizas, de piedras y de lava
oscura noche y ruina,
por hirvientes arroyos
o bien por la ladera,
furioso entre la yerba,
de derretidas piedras
y metales y arenas encendidos
baja inmenso torrente,
y las ciudades que en la lejanía
bañaba el mar, confunde,
aniquila y recubre
al instante: donde hoy sobre ellas pace
la cabra, y nuevos pueblos
surgen al lado opuesto, cimentados
en los sepultos, y los derruidos
muros el monte altivo pisotea.
Que Natura no estima
ni cuida más al hombre
que a las hormigas, y si en él más raro
el estrago es que en ellas,
se debe únicamente
a que es menos fecunda nuestra raza.

Mil ochocientos años
hace que se borraron, oprimidos
por el ígneo poder, aquellos pueblos,
y el campesino, atento
a las viñas que en estos mismos campos
nutre la muerta y cenicienta tierra,
aún alza la mirada,
temeroso, a la cumbre
fatal, siempre iracunda e implacable,
que se yergue terrible, y amenaza
con su estrago a sus hijos y a su pobre
hacienda. Y con frecuencia
el infeliz, subido
al techo de su choza, a la intemperie
toda la noche pasa, desvelado,
y a menudo, temblando, observa el curso
de aquel temido hervor, que se desborda
de la inexhausta falda
sobre el lomo arenoso, iluminando
las riberas de Capri,
de Nápoles el puerto y Mergelina.
Y si ve que se acerca, o si en el fondo
del doméstico pozo escucha el agua
borbollear, apresuradamente
a su mujer despierta y a sus hijos,
y recogiendo lo que pueden, huyen,
contemplando de lejos
su nido y el pequeño
campo que fue del hambre único amparo
presa de la ola ardiente
que llega crepitando, e inexorable
sobre ellos para siempre se derrama.
Torna la luz del cielo,
tras el antiguo olvido, a la extinguida
Pompeya, cual sepulto
esqueleto que pone
avaricia o piedad al descubierto;
y desde el yermo foro,
erguido entre las filas
de truncadas columnas, a lo lejos
contempla el peregrino el bipartido
pico, y la humeante cresta
que esparce ruina y todavía amenaza.
Y en el horror de la callada noche,
por los desiertos circos,
por los informes templos, por las casas
donde esconde sus crías el murciélago,
como siniestra antorcha
que girase a través de los palacios,
corre el fulgor de la funérea lava
que en las sombras, de lejos,
brilla rojiza y tiñe todo en torno.
Ignorante del hombre y las edades
que él llama antiguas, y del sucederse
de abuelos y de nietos,
Naturaleza, siempre verde, avanza
por tan largo camino
que inmóvil nos parece. Caen los reinos,
pasan gentes e idiomas, pero ella
no lo ve; y que es eterno el hombre cree.

Y tú, lenta retama,
que con fragantes hojas
adornas estos campos desolados,
también muy pronto a la cruel potencia
sucumbirás del subterráneo fuego,
que retornando al sitio
ya conocido, extenderá su manto
sobre tus tiernos tallos. Y, rendida,
inclinarás bajo el terrible peso
tu inocente cabeza;
mas hasta entonces no la habrás doblado
cobardemente suplicando, ante
el futuro opresor, ni a las estrellas
la habrás erguido con insano orgullo,
ni en el desierto, donde
lugar y nacimiento
la suerte, no tu gusto, quiso darte;
pero más sabia y sana
que el hombre, no has pensado que tus débiles
retoños, inmortales
se hayan hecho por ti o por el destino.


De Cantos, 1831.

Giacomo Leopardi (Italia, 1798 – 1837).

No hay comentarios:

Publicar un comentario

Gracias por comentar. Tu comentario será leído y publicado pronto.